Accoglie i visitatori che si arrampicano sul colle di Ripatransone da occidente.
Prende il nome dall'antico castello di Agello che sorgeva probabilmente a poca distanza dalla porta, nel XII secolo viene riunito insieme ad altri centri del circondario, per volontà del Vescovo di Fermo, formando l'attuale cittadina; a memoria dell'insediamento la porta ed il quartiere dove sorge ne manterranno vivo il nome fino ad oggi. Eretta con le mura forse durante la fondazione del primo castello ripano da parte del comitato fermano, sebbene le tracce architettoniche la fanno ricondurre ad un'edizione trecentesca.
Durante il bellicoso XIV secolo resiste nel 1376, alle ire degli eserciti ghibellini in quanto la città era rimasta fedele al papato, respingendoli un duplice assedio dove partecipano anche valenti condottieri come Boffo da Massa e Rinaldo da Monteverde, nel 1389 resiste anche all'assalto degli eserciti fermani. Con l'arrivo di Francesco Sforza la città è costretta a sottomettervisi malvolentieri nel 1434, nel 1442 si ribellerà al tiranno guidata dal capitano Santoro Pucci, scacciando le sue truppe che presto però, assedieranno la città sottomettendola con le armi. Il Pucci fuggito a Roma riesce a organizzare una spedizione per liberare Ripatransone, capitanata da Niccolò Piccinino che nel 1445 ingaggerà con lo Sforza, la famosa battaglia di Santa Prisca finita con la cacciata del tiranno. L'assedio sforzesco aveva causato gravi danni alle difese ed era necessario un restauro, grazie all'opera di Luigi Lunerti i ripani ottennero per trent'anni l'esenzione dal pagamento delle tasse, potendo così restaurare le mura e le porte. I lavori iniziarono ma presto i lavoratori vennero falcidiati da un'epidemia di colera che li costrinse a fermare il cantiere, poi ripresi grazie all'arrivo degli aiuti di Giosia Acquaviva, famiglia da sempre amica della città, completando l'opera nel 1447. Per paura di un'invasione dell'impero turco, nel 1476 vengono risistemate le difese e si riempiono le armerie.
Non può arrestare il saccheggio del 1515 quando le armate di Carlo III di Borbone-Montpensier, a causa di un documento falso, vengono fatte entrare. Nel 1519 si legge che le mura e le porte venivano affittati o destinati ad altro uso durante i periodi di pace, infatti Francesco Saccoccia, che vuole la leggenda sia marito di Luchina, uno dei personaggi dell'assedio del 1521, faccia richiesta di abitare sul torrione della porta.
Secondo le tradizioni da qui uscirà Tubicino, inviato dagli spagnoli a parlamentare la resa dei ripani durante l'assedio del 1521, continua la leggenda che i ripani si batterono ferocemente e tra di loro spiccano tre donne: Luchina Saccoccia, Angela di Zingaro e Bianca Benvignati De Charolis. Quest'ultima uccise un portastendardo spagnolo e raggiunta la sommità del torrione di Porta d'Agello, lo sventolò rinfrancando gli animi dei ripani che riuscirono infine a scacciare gli invasori.
Tra la fine del XVI e l'inizio del XVII si nota che per risparmiare sulla manutenzione delle mura e delle torri, vengono cedute alcuni terreni adiacenti le fortificazioni, ad i cittadini che ne avessero fatto richiesta, mantenendole però efficenti. Ma l'epoca delle città murate andava terminando e ormai le difese servivano solo per respingere i vari episodi di brigantaggio, vedrà le ultime attività durante le rivolte del 1799 quando presidiata dalle truppe francesi, viene presa dall'esercito di insorti e malviventi, guidate dal prete-brigante Don Donato de Donatis. Con l'arrivo delle automobili si rendono necessari nuovi accessi alla cittadina, fu così che nel XX secolo si abbattono porzioni di mura per la nuova viabilità, fortunatamente la porta si salva in quanto viene aggirata dalle due corsie dell'attuale circonvallazione, ne risulta però interrata la base.
Ci si imbatte con la porta se si sale al paese da occidente, in quanto la provinciale la avvolge rendendola visibile anche da chi vi passa in macchina. Della mura che si collegavano alla fortificazione rimane solo un tratto anch'esso parzialmente interrato, dove si possono notare alcune feritoie e un tratto con dei merli alla ghibellina e delle passerelle che permettevano il passaggio dei difensori. Piuttosto ben conservato è il torrione a protezione dell'ingresso, che ormai murato, ne spunta dal terreno solo l'arco ogivale in pietra arenaria, corredato di una cornice esterna in cotto, sebbene piuttosto danneggiato, se ne leggono ancora i motivi decorativi. Nella parte superiore della facciata si trova una rientranza rettangolare nello spessore del muro, dove venivano montati gli stemmi della comunità e dei suoi signori, lo spazio è affiancato a destra da una feritoia rotonda per bombarde ed una piccola finestrella, in alto a sinistra. Sulla sommità una fila di caditoie, permetteva di contrastare il nemico che si fosse avvicinato alla porta, priva di ponte levatoio, si serviva di una lunga rampa in salita per sfiancare gli assalitori. Singolari sono le altre caditoie sulla facciata orientale, iniziano più in basso rispetto alla cima, emergendo dalla muratura per poi rientrarvi, senza apparente traccia di strutture superiori o aperture. Sulla facciata opposta invece c'è l'ingresso rialzato per l'interno, un tempo raggiungibile con una scala mobile che se ritirata, isolava l'interno del torrione costituito da due ambienti coperti e dalla piattaforma superiore. Sul retro si vedono i resti dell'arcata di uscita dalla porta e le finestre che illuminano gli interni, la prima presenta anche una gradevole cornice ad arco. Sulla cima i resti di tre merli resistono ancora al logorio dei tempi.
Autore: Maurizio Mauro
Titolo: Castelli: Rocche torri cinte fortificate delle Marche (I castelli dello Stato di Ascoli) Vol.IV
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