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Forse uno dei luoghi più noti e caratteristici del territorio comunale di Ascoli Piceno, immortalato in numerose immagini soprattutto per la sua formidabile posizione. Ben visibile anche dal centro storico della città picena, specialmente dalla centrale Piazza del Popolo e soprattutto durante la notte, quando viene ben illuminato. Lo si vede incastonato nella parete rocciosa che delimita a settentrione il pianoro di Colle San Marco, frequentatissima meta turistica che prende il nome dall'eremo.
Il fenomeno eremitico sulle montagne ascolane ha origine antica, è testimoniato a partire dal IV secolo, sviluppandosi poi col tempo, fino a colonizzare gran parte dei rilievi più inaccessibili, in cerca di maggiore solitudine e isolamento. Si ha una forte crescita delle comunità dopo la visita di San Francesco ad Ascoli nel 1215, quando numerosi giovani si ritirano nell'abbandonato monastero benedettino di San Lorenzo in Carpineto, per seguire i suoi insegnamenti. I suoi ruderi si trovano a poche centinaia di metri da San Marco, nei pressi si apre anche la Grotta del Beato Corrado, altro luogo legato all'eremitismo. Nel 1234 Papa Gregorio IX eleva il vertiginoso eremo di Sant'Angelo in Volturino, insieme a quello di San Lorenzo, sede dell'abate e punto di riferimento per molte delle comunità religiose montane. San Marco si colloca in questo scenario, sebbene le notizie sulle origini sono poche e le storiografie, molto contrastanti e poco chiare. Generalmente si sostiene che la fondazione avvenga intorno al 1287, quando il vescovo di Ascoli concede ad alcuni eremiti di riunirsi in questa sede, sotto la regola cistercense. Le ricerche di Don Virginio Cognoli e Furio Cappelli, fanno un'analisi più circostanziata delle origini del complesso monastico. Soprattutto si mette in dubbio l'appartenenza all'ordine cistercense. In quanto grande ordine monastico, questo non risentiva del potere vescovile ed inoltre, l'eremo non è mai citato nelle relazioni tra gli abati cistercensi e il clero ascolano. Quindi più probabilmente era un piccolo monastero sottoposto alla diocesi, sicuramente di regola benedettina, forse con alcune sfumature riconducibili alla tradizuone cistercense, in particolare alla riforma di Bernardo di Chiaravalle. Probabilmente viene fondato verso la metà del XIII secolo, come sostiene un'interessante analisi di Cappelli, forse eretto con i contribuiti del partito guelfo ascolano, dopo la presa e la devastazione della città, da parte delle truppe di Federico II di Svevia. Per la prima volta è citato in un testamento redatto nel 1253, a partire da quel momento l'istituto religioso, inizia ad accrescere il suo patrimonio tramite le donazioni dei fedeli e le concessioni vescovili. Fin dalle origini vantava già possessi nell'acquasantano, quando si espande acquistando diversi terreni dalla stirpe dei Guiderocchi, padroni della zona. Divenuto Papa nel 1289, il francescano Niccolò IV, originario dell'attiguo comprensorio di Lisciano, nel distribuire benefici alla sua terra natale, promuove l'eremo concedendo l'indulgenza ai pellegrini che lo visitavano nelle feste di San Marco e di Santa Maria. La chiesa era officiata da un priore, che aveva il compito di amministrare i sacramenti e dire messa. Probabilmente il primo di questi è Bartolomeo Amici da Ascoli, in carica secondo alcuni fino al 1294, secondo altri era ancora in vita durante il vescovado di Rinaldo, iniziato nel 1317. Sul finire del XIII secolo è però nota a tutti la figura del "terribile" priore Fra pace, ricordato per la sua gestione scellerata. Mentre dilapidava i cospicui beni del monastero, costringeva alla povertà assoluta i suoi confratelli, che continuamente maltrattava, gli impediva anche di rientrare nel monastero ed in generale di seguire la regola, inoltre tiranneggiava anche sulle popolazioni dei centri limitrofi. Stanco delle prepotenze, il vescovo lo scomunica nel 1294, nel 1301 si registra anche la vendita di terreni dell'acquasantano al comune di Ascoli, sono i primi segnali della decadenza di San Marco. Nel frattempo da piccola chiesa incastonata nella roccia, la struttura si era accresciuta sfruttando i pochi appigli della parete rocciosa, creando così un insediamento più ampio. Comprendeva altre strutture che sorgevano sulla destra, sopra la scalinata d'accesso che ne conserva ancora qualche traccia, collegate alla parte inferiore della chiesa mediante un portale, ancora visibile ed oggi murato, vi si trovavano la cucina ed una cantina, le celle del priore e dei monaci. Sul lato sinistro lo storico Colucci riferiva nel settecento di un sentiero che passando per la roccia, conduceva al convento di San Lorenzo in Carpineto, inoltre si riferisce in epoca predecende, la presenza di altre strutture aggrappate alla roccia. Essendo la parete geologicamente soggetta a crolli, di queste opere non rimangono che vaghe tracce. Sono anche colonizzate le superfici sotto il monastero, dove tuttora rimangono resti di murature, molto probabilmente qui venivano ospitate le numerose greggi che manifestavano la ricchezza dei religiosi. Era anche presente una grande macina in pietra, segnalata un tempo nei pressi dell'eremo. Nel periodo di massimo splendore amministrava diversi beni e chiese sparse per il piceno, diversi terreni e cappelle disseminate tra Piagge, Lisciano e Marino del Tronto, dove vi era una "Grangia" di loro proprietà, ossia una grande azienda agraria. Era a lui sottoposto l'eremo di San Giacomo, oggi rudere nella parte marchigiana di San Giacomo di Valle Castellana. I numerosi possedimenti nell'acquasantano, confermati anche nel catasto ascolano del 1381, consistevano nei diritti totali sulla chiesa di San Giovanni nel capoluogo, parziali su San Lorenzo a Paggese e su Santa Maria ad Aquis di Santa Maria d'Acquasanta. L'accresciuto potere economico inizia a degradare la condotta morale e spirituale del monastero. Piuttosto controversa sarà la figura del priore fra' Nunzio da Fabriano, inizialmente si era occupato dell'amministrazione dei beni acquasantani, mutandone le rendite, facendo scambi di terreni poco vantaggiosi. Diventa noto alle cronache nel 1385, quando il vescovo Pietro III da Torricella durante la consueta visita diocesana, passa per l'eremo. Giunto sotto la rupe, Nunzio gli rifiuta l'accesso, nonostante fosse stato avvertito in precedenza, acconsentendo a ricevere l'alto prelato. Questi sosteneva che il vescovo non avesse autorità sul suo monastero, costringendolo quindi a proseguire la visita pastorale. Una volta tornato in città, Pietro III avvia un processo per ristabilire i suoi diritti su San Marco: vengono sentiti numerosi testimoni ed all'inizio dell'anno successivo, arriva la sentenza di condanna per gli occupanti dell'eremo. Il vescovo infine riesce ad entrare nel monastero, dove trova solo due monaci, che gli testimonieranno il losco operato del priore, scappato con i suoi parenti e servitori, dopo aver dilapidato o sottratto gran parte dei beni del monastero. Il successore di Pietro III, il vescovo Archeoni, scioglie la congregazione monastica e cede la chiesa di San Marco, con tutti i suoi beni, alla famiglia Sgariglia. Questa sarà trasformata in parrocchia, con l'erezione del campanile, mentre si correda anche delle tombe ad arcosolio, ancora visibili. Nel 1474, l'edificazione della chiesa di San Bartolomeo alle Piagge, segna la fine della parrocchia di San Marco; infatti il nuovo edificio era stato fortemente voluto dalla popolazione, che trovava scomodo arrampicarsi fin sopra all'eremo per le funzioni religiose. Sul finire XVIII secolo viene visitata dal Colucci che trova ancora delle strutture intorno alla parete rocciosa, da poco abbandonate. Dopo la morte di Giovanni Sgariglia nel 1908, ultimo erede della famiglia, gran parte del suo patrimonio confluisce all'Opera Pia Sgariglia, si effettuerà quindi una prima ristrutturazione migliorandone l'accesso, con la costruzione dello scalone che si percorre oggi. Soppressa poi nel 1983, la fondazione passa infine al comune di Ascoli che inizia il recupero dell'opera, gli ultimi interventi conservativi avvengono tra 2015 e 2016, con il restauro degli affreschi.
Si raggiunge sia passando per il sentiero sconnesso, ma anticamente lastricato, che sale dalla chiesa di San Bartolomeo di Piagge, oppure scendendo una ripida ma scenografica scalinata aggrappata alla rupe, praticabile dal bordo del pianoro, nei pressi del sacrario partigiano. Seguendo le indicazioni si arriva fin sotto la rupe, dove si è accolti da un piccolo spiazzo irregolare e recintato da staccionate, da qui parte lo scalone che sale fino all'ingresso dell'eremo. Questo scavalca il fondo del ripido dirupo, un tempo si saliva attraverso una scala rimovibile, anche a scopo difensivo. Arrivati al cospetto della cancellata, si può scorgere in basso una pietra con incisa la frase "Chi è ubriaco torni", in riferimento al precedente scomodo accesso, pericoloso da percorrere se non lucidi. Dopo il cancello inizia un lungo scalone parzialmente scavato nella roccia, dove rimane la traccia di una volta che sorreggeva le strutture scomparse. Entrati ci si ritrova subito nella cappella inferiore, illuminata da tre bifore, di cui la prima mancante della colonnina, sul fondo c'è la scala che sale alla chiesa ed una porticina, che conduce alla base del campanile. L'ambiente è coperto da una volta a botte, un tempo completamente affrescata, oggi rimangono solo poche tracce scarsamente leggibili, si riconoscono solo poche scene: un "Compianto sul Cristo morto" ed una "Madonna in trono fra Santi". Il pavimento è mancante e ridotto alla sola terra battuta, molto probabilmente era utilizzato per le sepolture dei facoltosi che sovvenzionavano il monastero. Non è sopravvissuto l'altare della cappella, forse sistemato a ridosso della scala per la grotta superiore. Salendo si giunge alla splendida chiesa maggiore, in buona parte all'interno di una cavità naturale, con la volta coperta dai verdi capelvenere, una specie di felce che predilige i luoghi scarsamente illuminati. Il lato della grotta è in parte protetto da mura, coperte poco più in alto con uno stralcio di tettoia sorretto da pilasti; vi si aprono due bifore ma gran parte della luce entra dall'ampio spazio libero, posto tra la tettoia e la volta della parete rocciosa. Il perimetro è ovviamente irregolare, l'altare principale si alza da un basamento in pietra nell'unica area lastricata, è costituito da una grande pietra di travertino appoggiata su un piedistallo. Su un lato di quest'ultimo è presente un foro, secondo la tradizione infilandoci la testa e sussurrando un desiderio, questo si avvererà. A lato dell'altare vi è una tomba ad arcosolio con tracce di pitture, data la posizione eminente questa potrebbe essere connessa alla famiglia Sgariglia. Altre due sono ai lati della grotta, su quella a sinistra si nota lo stemma dei Tibaldeschi con le sei palle, ed uno spazio per un'altro blasone, oggi mancante. L'altra attigua ha recentemente riportato un'altro stemma, un leone rosso in campo oro, del quale non si conosce il proprietario, dietro l'altare si può raggiungere la sommità del campanile attraverso una balconata panoramica.

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